"100 Giorni di Solitudine" è una serie di autoritratti che l’artista ha scattato con la propria macchina fotografica dentro una piccola e colorata stanza da letto, dove la giovane si è rinchiusa volontariamente per oltre 20 mesi, a partire dal novembre del 2013, in seguito all’aggressione subita da parte di alcuni miliziani di Hamas che l’avevano fermata per strada, durante l’organizzazione di un evento artistico, contestandole il mancato uso del velo. Dopo avere subito violenze ed essere stata imprigionata per 8 giorni, i militari le imposero di firmare un documento con alcune condizioni inaccettabili, se avesse voluto di nuovo uscire. Tra le varie, l’uso del vestito islamico integrale e l’obbligo di uscire sempre accompagnata dal padre o dal fratello, e mai da sola. Rientrata a casa, si rinchiuse in un auto-esilio volontario dalla propria comunità, per rimanere nell’unico spazio dove poteva essere libera, se stessa, donna e artista. Un esilio vissuto allo scopo di denunciare la condizione di isolamento e di mancanza di libertà che caratterizzano la vita quotidiana della popolazione, in particolare di quella femminile, all’interno di un territorio fortemente militarizzato, dove l’esercizio dei propri diritti individuali diventa una sfida che si rinnova ogni giorno.
Per venti mesi, la sua piccola stanza, una parete dipinta di acquamarina e un’altra ricoperta da un patchwork di cartoni per uova colorati, è diventata il luogo in cui è vissuta e ha lavorato, offrendo lo sfondo a 25 autoritratti .
La stanza dell’isolamento, della prigionia autoimposta, è piccola nove metri quadrati, una sola finestra, una lampadina appesa ai fili elettrici. Le pareti sono colorate: blu-verde oceano, quella di fronte coperta con un arcobaleno di cartoni per le uova.
In queste opere l’artista indossa un costume, risistema l’inquadratura e scatta: autoritratti dove il volto quasi non si riconosce, composizioni che ricordano le nature morte di Jean-Baptiste-Siméon Chardin, i chiaroscuri di Caravaggio, le scene teatralizzate di Jacques-Louis David, secondo alcuni critici d’arte.
(Una curiosità: Nidaa ha conosciuto Caravaggio solamente una volta arrivata in Italia, proprio perché tutti paragonavano le sue foto ai dipinti del celebre pittore lombardo).
Sono le uniche scene che vuole vedere. Non ha lasciato la stanza neppure durante i cinquanta giorni di guerra tra Israele e Hamas nell’estate 2014. La famiglia è scappata da questo villaggio nella parte centrale della Striscia e si è rifugiata verso la città di Gaza. Lei è rimasta sotto i bombardamenti.
In quelle settimane realizza un’opera mentre si rovescia in testa un secchio pieno d’acqua e vernice rossa, un macabro «ice bucket challenge» per raccontare il sangue attorno a sé. Quest’opera però non verrà inserita nei "100 Giorni di Solitudine".
"Questo spazio – dice mentre accarezza la macchina fotografica – mi ha dato la libertà che fuori non potevo trovare. Libertà dal grigiore e dalla bruttezza di Gaza, dall’assedio israeliano, dalle imposizioni degli uomini di Hamas".
La prima foto che ha scattato la ritrae mentre sbuccia delle cipolle, e piange. "Nei primi mesi di autoreclusione ho pensato di suicidarmi. La mamma ha cominciato a lasciare davanti alla porta, oltre al cibo, piccoli compiti: i pomodori da tagliare, un’insalata da preparare", racconta Nidaa. All’osservatore interpretare se le lacrime scendono per l’effetto dell’ortaggio, o se per l’inizio dell’isolamento. Un’altra opera, che lei definisce la più importante e significativa di tutta la serie, è quella dove imbraccia un oud e impone con il dito di piantarla ad un gallo combattivo (vedi immagine). In una sua intervista afferma: "Il gallo rappresenta l’uomo, nella simbologia araba. Una energia maschile che vuole mettermi a tacere. In mano ho un Oud, strumento mediorientale.
Con il mio gesto invito questo "gallo" a tacere, a lasciarmi libera di esprimermi e di esprimere la mia arte".
Alla fine di gennaio 2015 avrebbe dovuto partecipare all’inaugurazione della sua mostra "Cento giorni di solitudine", portata a Gerusalemme Est e in Cisgiordania dal Centro Culturale Francese. Gli israeliani non le hanno concesso il permesso di lasciare la Striscia, gli organizzatori hanno cercato allora di allestire un collegamento via Skype dalla sede a Gaza.
Nidaa, nata ad Abu Dhabi dove erano emigrati i genitori, tornati a Deir al-Balah nel 1996, ha accettato: "ma è saltata l’elettricità, niente evento. Lo stesso problema a casa. Così uso la luce naturale: è più affidabile e non posso interrompere la relazione tra il sole e la mia stanza". [9]